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Sima Qian. Uomini e storie dell’antica Cina

Posted in Libri on 30 settembre 2010 by Holger Danske

Questa piccola segnalazione letteraria contiene sia gioia che costernazione. Ebbene, poco tempo fa mi è giunta notizia, incredibile ma vero, che la Tored, piccola casa editrice di Tivoli (Rm), ha avuto il coraggio e l’ardire di pubblicare lo Shiji di Sima Qian, con il titolo Uomini e storie dell’antica Cina.

Ho subito chiesto informazioni per il libro. Un po’ di perplessità, apprendendo che non si trattava del testo integrale. Bene, in mancanza di meglio, mi sarei accontentato anche di un’antologia, purché ben fatta e significativa nella scelta del materiale. Curatori del libro erano segnalati la sinologa Ivy Sui-yen Sun e il classicista Thomas R. Martin; curatrice italiana, l’ellenista Monica Berti.

Mettermi in contatto con la meritevole casa editrice e ordinare il libro, nonostante il prezzo non certo basso (€ 34.00), è stato un attimo!

Capirete, lo Shiji, ovvero le “Memorie storiche” di Sima Qian (ca. 145-86 a.C.), è un testo fondamentale per la nostra conoscenza della mitologia e della storia cinese. Ma, seppure continuamente citato a ogni pié sospinto in tutti i libri sulla Cina che ho letto, sfogliato e studiato nel corso di tanti anni, non era mai stato tradotto in italiano prima d’ora.

Spiegare l’importanza di queste “Memorie Storiche” è quasi impossibile. Con una narrazione dettagliata e affascinante, lo Shiji copre tutta la storia della Cina dalle origini mitologiche alla dinastia Han, affrontando temi quali il rapporto tra potere centrale ed etica individuale, la natura della moralità politica, il legame tra il passato e il presente. L’opera è corredata di imponenti tavole cronologiche dove si confrontano, anno per anno, la storia dei vari regni cinesi. Vi sono poi lunghe digressioni su argomenti quali la religione, la mitologia, la riforma del calendario, i rituali, la musica, l’economia, la storia dei principali casati e, per finire, una vasta serie di biografie dei grandi personaggi del passato. Insomma, lo Shiji è l’opera che ha fondato la letteratura storiografica cinese. Vasta, impressionante, diluviale, è paragonabile per importanza alle Storie di Erodoto, e tre volte più lunga.

Pensate che il suo autore, l’astrologo imperiale Sima Qian (o Ssŭ-ma Ch’ien secondo il vecchio criterio di traslitterazione), giunto ormai a metà dell’annoso lavoro, fu accusato di avere sostenuto un generale caduto in disgrazia e venne condannato alla massima pena. Secondo la consuetudine del tempo, il condannato poteva scegliere tra il pagamento di un’ingente multa, la morte o la castrazione. Qualsiasi gentiluomo, in mancanza di denaro, avrebbe optato per una morte dignitosa e onorevole. Ma Sima Qian scelse di venire evirato, con tutte le gravissime conseguenze sociali e l’ignominia che tale mutilazione comportava, in quanto non poteva permettere che la sua opera – dedicata alla memoria del padre – rimanesse incompiuta. In un’accorata lettera, scritta all’amico Ren An, dichiarava:

Il motivo per cui ho sopportato questo supplizio in silenzio e non ho rifiutato di farmi coprire di lerciume è stato il non poter tollerare di lasciare incompiuta una cosa di personale importanza per me; non potevo accettare di morire se questo avesse significato che i passi fondamentali del mio scritto sarebbero andati perduti per i posteri.”

E dunque, come si può ignorare un libro simile?

Come potete immaginare, non appena il postino mi ha recapitato il pacco, ho subito stracciato l’involucro e, avuto il libro tra le mani, mi sono messo avidamente a sfogliarlo. Ma quant’era leggero! Centonovanta pagine? D’accordo, sapevo che non poteva trattarsi di un’edizione integrale, ma questa non era neppure un’edizione ridotta. Era… è…

Ebbene sì, Uomini e storie dell’antica Cina è una minima selezione del testo originale: undici stralci, tratti un po’ a caso dai capp. 6, 8, 9, 47, 61, 65, 85, 86, 110, 126 e 129. Tra l’altro mancano del tutto i primi cinque capitoli, quelli sulle origini mitologiche della Cina.

E poi che dirvi? Il volume è molto curato e ben stampato. Ha anche un buon profumo di carta e inchiostro, nota che sembrerà banale a chiunque non sia un feticista-del-libro. La traduzione è in ottimo italiano e c’è anche una splendida introduzione. Poi, viene riportata la famosa lettera di Sima Qian a Ren An, di cui ho prima citato un brano, che da sola vale il prezzo richiesto. Infine, per chi ama la storia e la letteratura cinese, il volume è un acquisto obbligato.

In mancanza di note esplicite, immagino che la traduzione italiana sia stata effettuata su una versione inglese di Ivy Sui-yuen Sun e Thomas R. Martin; nel caso sia così, mancano il titolo e l’editore originali dell’opera. Né è chiaro se la selezione dei testi sia una scelta dell’edizione inglese o di quella italiana. Insomma, un minimo di spiegazioni sulla provenienza del materiale e sui criteri editoriali mi avrebbe un po’ confortato!

Ma il difetto maggiore del libro è che, appunto, si tratta di una selezione. Fa venire voglia di leggere anche il restante 99% dell’opera, e spero proprio che un responsabile della BUR o della UTET capiti in questo blog e si renda conto che lo Shiji va assolutamente tradotto. Sappia, in tal caso, signor editore, che spenderei una cifra ragionevole per l’opera completa. Ma questo Uomini e storie dell’antica Cina non è affatto il libro di Sima Qian, ma solo un assaggino, un esempio, una demo. I suoi curatori hanno trattato lo Shiji come l’imperatore ha trattato Sima Qian… Zac! Ahia!

Detto questo, Uomini e storie dell’antica Cina è comunque una boccata d’aria fresca nel bel mezzo di un desolante vuoto editoriale. Per chi volesse ordinarlo, ecco la pagina nel sito delle edizioni Tored.

Terra Guerra Magia

Posted in Leggende, Libri on 12 settembre 2010 by Holger Danske

Terra Guerra Magia è, fin dal titolo, un libro incentrato sulla teoria del trifunzionalismo indoeuropeo. Giacomo Scalfari l’ha scritto utilizzando il materiale della propria tesi di laurea, discussa all’Università di Bologna nel 2002, e l’ha dedicato, con un guizzo ribaldo,

alla memoria di Éon della Stella,
paladino degli oppressi,
morto nelle prigioni del duca di Bretagna
nel 1148.

Pubblicato l’anno successivo (2003) dalla Keltia Editrice di Aosta, il libro segue le tracce dell’ideologia tripartita degli Indoeuropei nell’arco di quattromila anni, dal loro arrivo in Europa, nel III millennio a.C., alla fine del Medioevo.

Alla base vi sono le celeberrime ipotesi di Georges Dumézil, il quale, in una serie di studi magistrali, aveva ripartito le istanze religiose e sociali degli Indoeuropei in uno schema di tre funzioni fondamentali: sapienza e magia; guerra; fecondità e ricchezza.

Scalfari affronta il tema introducendo un’ulteriore difficoltà. Egli analizza il motivo della “Guerra di fondazione” – il mitico scontro tra gli dèi di prima e seconda funzione contro quelli appartenenti alla terza funzione, destinato a portare all’istituzione definitiva di un pantheon funzionalmente completo – e lo fa offrendo una suggestiva interpretazione. Egli vede in questo mito una traccia dell’antica invasione, da parte dei pastori indoeuropei, patriarcali e guerrieri, della Vecchia Europa matriarcale e pacifica ipotizzata da Marija Gimbutas, in seguito assorbita e integrata del nuovo sistema. È una possibilità da cui lo stesso Dumézil prendeva le distanze: secondo l’illustre studioso, il sistema delle tre funzioni faceva parte ab origine del pensiero indoeuropeo e il mito della Guerra di Fondazione intendeva piuttosto dare una giustificazione mitologica della loro unità. Scalfari non nega questo assunto, ma sostiene che il mito della Guerra di Fondazione sia stato via via riattualizzato man mano che gli indoeuropei assorbivano i popoli autoctoni della Vecchia Europa. Tal modo fornisce un’immagine assai interessante di un evento protostorico che, pure, è alla base della nostra cultura.

Non è questa la sede per prendere posizione sulla questione. Un lavoro intelligente e articolato come quello di Scalfari è sempre il benvenuto e fornisce molto materiale di riflessione. Nell’analizzare il mito della Guerra di Fondazione, egli si concentra soprattutto sugli esiti dei personaggi di terza funzione. Sono piacenti e belli, eppure malevoli, pronti a impossessarsi della regalità, ma funzionalmente incapaci di gestirla. Ma Scalfari, rifacendosi agli studi Joël Grisward, insegue i fili del trifunzionalismo ben oltre le antiche mitologie, ma fin dentro la società tripartita del Medioevo feudale (distinta in oratores, pugnatores e agricultores), ritrovando l’ideologia indoeuropea sia nel ciclo carolingio dei Narbonesi, sia, ancor più, nel ciclo bretone.

Se tutto il libro è condotto con intelligenza e spessore, quest’ultima parte è stata, per chi scrive, un’entusiasmante scoperta. Scalfari analizza nei dettagli alcuni elementi della leggenda di Artù. Egli rintraccia, nella coppia di personaggi a cui il re morente ordina di gettare la spada in acqua, un esito della coppia di terza funzione dei miti indoeuropei. Inseguiti sul filo dei testi, Cei e Bedwyr (Kay e Bedivere) ne emergono con sfaccettature inedite e le analisi di Scalfari dànno un significato a molti episodi che li hanno per protagonisti. Perché Cei mente a suo padre, affermando di aver estratto lui la spada dalla roccia? Perché Bedwyr si dimostra talmente avido da rifiutare di gettare la spada nell’acqua? I motivi sono assai più antichi e profondi. Così come nel racconto del graal di Chrétien de Troyes, dove Perceval è destinato a prendere il posto del Re Magagnato, è compreso un eco dell’episodio di Lúg che giunge alle porte di Temáir, per sostituirsi a re Núada, anch’egli presentato come ferito e incapace di garantire una corretta regalità. Leggendo, si notano molti punti in cui lo spazio disponibile non ha dato modo a Scalfari di seguire tutte le possibili tracce fino in fondo e, nonostante su Artù sia stato detto tutto e il contrario di tutto, l’autore riesce a dare l’impressione di un mondo inesplorato, pieno di delizie e meraviglie.  È esattamente come vorrei che finalmente ci si occupasse delle storie di Artù. In una cinquantina di pagine, Scalfari riesce a dire sul ciclo arturiano molto di più di tanti libri più vasti e blasonati ma, in fin dei conti, superficiali e privi di spessore.

È un lavoro appena iniziato, e auguro a Giacomo Scalfari di continuare i suoi studi.

Un articolo dello stesso Scalfari, tratto dalla prima parte del suo libro, è stato pubblicato su Bifröst, alla pagina Quando gli dèi si facevano la guerra. L’autore ha anche un blog, La scarpa di Víðarr. Per ordinare il libro, si può far riferimento alla pagina sul sito della casa editrice Keltia.

Giacobbismi e mitologia cinese

Posted in Libri on 27 agosto 2010 by Holger Danske

Mi è capitato di sfogliare il libro Templari, dov’è il tesoro?, ultima fatica (si fa per dire) letteraria (si fa sempre per dire) di Roberto Giacobbo, il famigerato conduttore televisivo di Voyager

A un certo punto, Giacobbo cerca di dimostrare che la rotta per l’America era ben nota nell’Alto Medioevo e che, secoli prima di Cristoforo Colombo, vi era già un discreto viavai di vichinghi,  templari e pescatori baschi dall’una all’altra sponda dell’Atlantico. L’ipotesi è niente male, e meriterebbe degli approfondimenti sensati, ma Giacobbo si limita a citare degli esempi, pescati un po’ qui e un po’ là, che lasciano il tempo che trovano.

Ma non è dell’America che voglio parlare, bensì della Cina. Che c’entra la Cina? Niente. Ma questo non vieta a Giacobbo di citarla, a casaccio, per rafforzare la sua tesi. Infatti, scorrendo con incredulo interesse i funambulismi logici affastellati da Giacobbo, sono inciampato sulla seguente affermazione (pagg. 173-174):

I testi cinesi raccontano le imprese di Shan Hai Ching T’Sang-Chu e Shan Hai Jing, i quali, mandati in missione dall’imperatore Huang Ti, avrebbero raggiunto le coste americane passando lo stretto di Bering già nel 2640 a.C.

Tale notizia è anche presente nel sito di Voyager, dove potrete leggerla in tutto il suo splendore, in un articolo dove si ipotizza la presenza di Dante in Islanda. L’assoluta improbabilità del contesto non ha impedito a parecchi altri siti e blog di riportare a loro volta l’informazione in oggetto, dimostrando una volta di più come tanta gente sia disposta a fidarsi a occhi chiusi di affermazioni campate in aria.

Già una frase che inizia con “I testi cinesi raccontano…” dovrebbe far rizzare le orecchie a chiunque abbia un minimo di senso critico. Di quali testi cinesi stiamo parlando? Tutti sono capaci di scrivere stupidaggini e ricondurle a imprecisate fonti cinesi, sanscrite o babilonesi, senza però dire quali. Si vuol dare l’idea che la letteratura antica, o di paesi lontani, sia cosa enigmatica e misteriosa, riservata agli studiosi e inavvicinabile ai comuni mortali, e che questi ultimi debbano accettare con timore reverenziale affermazioni tratte dai “testi cinesi”, senza alcun diritto a un serio riscontro.

Ma ritorniamo all’affermazione presente nel libro di Giacobbo.

Tale affermazione, che il lettore poco addentro ai meandri della mitologia orientale non può che accettare sulla fiducia, nasconde una stratosferica, mastodontica, abissale ignoranza della materia. Chi l’ha scritta non aveva la minima idea di cosa stesse scrivendo. È una frase che meriterebbe gli onori del Guinness dei Primati solo per l’incredibile densità di strafalcioni che riesce a contenere nello spazio di quattro righe.

Ma procediamo con ordine.

Abbiamo alla base un’ipotesi avanzata da Henriette Mertz nel 1972 (Pale Ink: Two Ancient Records of Chinese Exploration in America). L’autrice cercava di dimostrare, a partire da alcuni accenni contenuti in un testo cinese di duemila anni fa, il Libro dei monti e dei mari, che i Cinesi fossero arrivati in America.

Per la cronaca, una bella traduzione italiana del Libro dei monti e dei mari è stata pubblicata da Marsilio, a cura di Riccardo Fracasso (Venezia 1996). Chiunque può quindi andare a consultare il testo e farsi un’idea del suo effettivo contenuto. Il Libro dei monti e dei mari  è essenzialmente un elenco di monti, fiumi, mari e isole, sia della Cina che delle terre confinanti. L’elemento fantastico predomina incontrastato: quasi ogni toponimo è abitato da draghi, mostri, animali e popoli straordinari. Vi sono descritti uomini dal becco d’uccello, dal corpo di serpente, con le ali o l’andatura quadrupede, o con un foro nel petto nel quale fanno passare un bastone per farsi sollevare e trasportare.

Il lettore può giudicare da sé quanto un libro simile sia affidabile al fine di dimostrare che i Cinesi conoscessero l’America.

Ora, non credo che Giacobbo sia andato a fare ricerche troppo approfondite. Non ha certamente consultato il Libro dei monti e dei mari, né probabilmente ha mai sentito parlare degli studi della Mertz. Le sue fonti sono riportate in bibliografia, e non c’è tanto da stare allegri visto il livello medio dei libri citati. Proprio non me lo vedo Giacobbo che va a fare ricerche in biblioteca. Immagino che egli abbia tratto le sue informazioni da internet.

Comunque sia, ho voluto fare una piccola ricerca. Ho dato un’occhiata su Google e ho subito trovato, in questa pagina, incentrata sui vichinghi, la seguente affermazione:

The ancient Chinese geographical text, Shan Hai Ching T’sang-chu, and the classic chronicle Shan Hai Jing, suggest that the West coast of North America was “discovered” by Chinese Imperial astronomers.

Capito? Avete letto bene? Shan Hai Ching e Shan Hai Jing sono qui i titoli di due opere letterarie, non i nomi dei due messaggeri che, secondo Giacobbo, l’imperatore avrebbe inviato in America. Qualcuno, nel tradurre dall’inglese, deve aver compiuto un errore di traduzione davvero barbino. Non voglio credere sia stato Giacobbo. Magari, il nostro valente scopritore di misteri ha ricopiato una pessima traduzione italiana e, senza avvedersene, ha infilato dentro una virgola, trasformando due libri in due uomini!

Ma anche se non fosse stato Giacobbo l’autore di una così fuorviante traduzione, è pur vero che, riportandola pari pari in un libro sponsorizzato dalla Rai e destinato a un’ampia quanto immeritata diffusione, ne è ugualmente responsabile.

Inoltre, nel citare le due opere cinesi, la fonte di partenza conteneva un altro errore, pacchianissimo, che il baldo Giacobbo ha allegramente contribuito a tramandare ai posteri. Volete sapere quale? Riportiamo ancora una volta i titoli delle due opere, come scritti nel libro:

Shan Hai Ching T’Sang-Chu
Shan Hai Jing

Ora, lo Shan Hai Ching e lo Shan Hai Jing non sono due opere, ma una sola, e cioè il Libro dei monti e dei mari (山海经), traslitterato prima secondo il vecchio criterio Wade, poi nel sistema ufficiale Pinyin. È curioso che nessuno, tantomeno Giacobbo, sia sia reso conto di aver riportato due volte uno stesso titolo, solo perché scritto in due modi lievemente diversi.

(Per inciso, “T’Sang-Chu” non so cosa significhi. Forse nulla, visto che sembra più vulcaniano che cinese. Ma forse l’autore voleva scrivere ts’ang-chu, con lo spirito aspro dopo il ts…)

Che Giacobbo citi – come “prova” che i Templari fossero andati in America – un bestiario cinese che non ha mai letto, citato da fonti poco attendibili, e il cui titolo, traslitterato secondo due criteri diversi, scambia per i nomi dei due inviati dell’imperatore, è un ottimo esempio della validità e della serietà del suo studio…

Ma veniamo all’ “imperatore” citato da Giacobbo. Huang Ti, o in pinyin, Huang Di, il “Dominatore Giallo”. È un mitico sovrano predinastico che, stando alle Memorie storiche di Si Ma Qian, avrebbe regnato dal 2697 al 2512 a.C., cioè prima dell’uccisione di nove dei dieci Soli da parte del divino arciere Yi, e prima della grande inondazione causata dal mostruoso Gong Gong. Nel corso del suo regno, Huang Di combatté una guerra contro Chi You, un temibile avversario con quattro occhi e la testa di toro, e lo mise in fuga suonando un magico tamburo fabbricato con la pelle di una creatura unipede che viveva nel mare orientale. Alla fine della sua vita, fu reso immortale e salì al cielo sul dorso di un drago.

Queste note tanto per evidenziare che, come personaggio storico, Huang Di è allo stesso livello di Gilgameš, Eracle o Romolo. Citarlo quale “prova” di qualsiasi ipotesi storica è semplicemente ridicolo.

Già poi definire Huang Di “imperatore” è un altro errore imperdonabile. Com’è noto, le leggende cinesi delle origini prendono l’avvio da una serie di otto sovrani preistorici, i tre huang (“augusti”) e i cinque di (“dominatori”), tra cui appunto il nostro Huang Di. Su di essi si accentrano molte leggende culturali: costoro avrebbero creato l’umanità e fondato tutti i rudimenti del vivere civile. Ma in quanto a consistenza storica, non ne hanno più di quella dei patriarchi antidiluviani della Bibbia.

A questi otto sovrani predinastici, secondo le leggende cinesi, seguì la prima dinastia Xia, la quale non ha alcun riscontro storico. La dinastia Shang, che seguì ad essa, è quella a cui tradizionalmente si fanno risalire le incisioni sulle ossa oracolari, trovate dagli archeologi nella vallata del Fiume Giallo, che sono le prime timide testimonianze della civiltà cinese. Solo con la terza dinastia Zhou, entriamo vagamente in qualcosa definibile come storia…

Tutto questo per farvi capire che razza di valore storico si possa dare a un personaggio come Huang Di, il “Dominatore Giallo”, ancora più antico delle più remote testimonianze archeologiche della civiltà cinese.

Ora, i sovrani delle prime dinastie (Xia, Shang, Zhou…) venivano definiti wang (“re”). Il primo a fregiarsi con il titolo di imperatore, come tutti sanno, fu Qin Shi Huang Di, l’unificatore della Cina, il folle creatore dell’esercito di terracotta, vissuto nel III sec. a.C. Egli mise insieme i titoli preistorici di huang e di di e ottenne un titolo nuovo di zecca, huang di, “augusto dominatore”, cioè quello che noi traduciamo con “imperatore”.

Forse Giacobbo aveva confuso il mitico e saggio Huang Di con l’arrogante e storicamente concreto Qin Shi Huang Di? Potrebbe anche darsi, per quanto dovrebbe essere evidente persino a lui che duemilatrecento anni di scarto temporale tra l’uno e l’altro non sono propriamente una bazzecola. A scanso di equivoci, aggiungiamo che il huang nel nome del sovrano predinastico Huang Di non vuol dire “augusto” ma “giallo”; in cinese viene infatti scritto con un diverso ideogramma.

Secondo una delle tante leggende che lo riguardano, Huang Di si era occupato di ancorare le isole degli immortali che, secondo il mito cinese, andavano alla deriva nel mare orientale. Queste si chiamavano Dai Yu, Yuan Jiao, Fang Hu, Ying Zhou e Peng Lai. In queste isole paradisiache, schiere di immortali [xian] vivevano in palazzi d’oro con colonne di giada, e avevano a disposizione elisir che impedivano la morte. Laggiù tutti gli uccelli e i quadrupedi erano bianchi, e gli alberi generavano frutti simili a perle deliziose, che conferivano l’immortalità a chiunque le assaggiasse. Per ancorarle, Shang Di ordinò a un genio di nome Yu Jiang di cercare quindici tartarughe giganti in modo che a turno sostenessero sulle loro teste le cinque isole. Così venne fatto, e tutti furono soddisfatti.

Altro non è che il mitema delle isole dei beati, collocate al di fuori del mondo e della storia, dove il tempo è rimasto sospeso all’epoca della perfezione primordiale e dove non esistono malattia, vecchiaia e morte. Le isole cinesi sono affini alle isole delle Esperidi del mito greco o ai síde delle leggende irlandesi e, anzi, appartengono alla medesima sfera mitologica.

Inutile aggiungere che posti come questi non hanno alcuna attendibilità geografica… per quanto pare che Qin Shih Huang Di avesse effettivamente inviato delle navi a cercare le cinque isole degli immortali, nel tentativo di sconfiggere la morte.

Possiamo forse scusare il megalomane imperatore, che visse più di duemila anni fa, in un mondo in cui i taoisti non facevano che cercare tecniche in grado di rendere gli uomini immortali. Ma il voler identificare le terre favolose di cui parla il Libro dei monti e dei mari con il continente americano, come ha fatto la Mertz, è solo la proiezione di una mente geograficamente moderna su una figurazione assolutamente mitologica.

In quanto a Roberto Giacobbo, semplicemente non credo avesse la più pallida idea di cosa stesse trattando, quando scriveva le righe di cui sopra.

Ma che importa? È evidente che Templari sia un testo del tutto avulso da qualsiasi intenzione di verità. Mette insieme ciò che fa comodo alla tesi di Giacobbo, senza alcun tentativo di analisi critica delle fonti, senza alcun criterio nell’esposizione delle prove e senza alcuna logica nella sequenza dei ragionamenti. È una stronzata in senso frankfurtiano. Certo, sarà il tempo a condannare simili libri alla meritata damnatio memoriae, ma intanto c’è gente priva di scrupoli che li scrive e gente disarmata che li compra e magari li prende pure per oro colato.

Auspicare un minimo di onestà intellettuale, è forse troppo?

PS. Un’ultima nota. Il primo ministro di Huang Di si chiamava Cang Jie. A lui veniva fatta risalire l’invenzione della scrittura pittografica. Il suo nome, nella traslitterazione Wade, dà Ts’ang-Chieh. Potrebbe essere lui, in effetti, lo “T’Sang-Chu” [sic] che il testo di Giacobbo fonde al titolo Shan Hai Ching. Ma questa è una mia ipotesi. Non ho idea di cosa intendessero al riguardo Giacobbo o le sue fonti. Se qualcuno ha qualche idea, a puro titolo di morbosità, si faccia pure avanti.

Novità “Senzatempo” in libreria

Posted in Libri, Notizie on 24 aprile 2010 by Bergelmir

Dopo il clamoroso annuncio del Kalevala edito dalle Mediterranee, vi segnaliamo altre novità in libreria.

"AGENZIA SENZATEMPO Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù" Di Claudia Maschio e Dario Giansanti. Edit Junior (QuiEdit), Verona 2010. Copertina di Licia Massella

"AGENZIA SENZATEMPO Viaggio irreale nell'Irlanda celtica" Di Claudia Maschio e Dario Giansanti. Edit Junior (QuiEdit), Verona 2010. Seconda edizione. Copertina di Licia Massella

In queste liete giornate primaverili, allietate dagli sbuffi del vulcano islandese, sono finalmente disponibili i due romanzi della serie Agenzia Senzatempo, scritti a quattro mani da Claudia Maschio e da Dario Giansanti, pubblicati dalla QuiEdit di Verona. Il primo, Viaggio irreale nell’Irlanda celtica, viene oggi ristampato in una seconda edizione ampliata; il secondo, Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù, è una novità assoluta e segue gli amici della bizzarra «Agenzia Viaggi Irreali» in una nuova avventura nei miti e nelle leggende dell’antica Britannia. Graficamente curati e arricchiti dai disegni di Licia Massella, entrambi i volumi sono inoltre corredati da una ricca appendice e da un folto corredo di note.
Nel sito Bifröst, troverete il riassunto, l’indice e le recensioni di entrambi i libri, e potrete anche scaricare anche due ghiotti pdf contenenti l’introduzione e alcuni capitoli di ciascun romanzo. Sia che vi gustiate gli «assaggi», sia che acquistiate i libri… A tutti voi, buon divertimento!

Redazione Bifröst

Kalevala

Posted in Libri, Notizie on 20 aprile 2010 by Holger Danske

Abbiamo atteso un secolo preciso per tornare a trovare, in libreria, una degna edizione del Kalevala. Ma ce l’abbiamo fatta! Esattamente cento anni dopo l’uscita dell’ormai mitica traduzione di Paolo Emilio Pavolini (Remo Sandron 1910), le Mediterranee propongono al pubblico italiano una versione nuova di zecca, a cura di Marcello Ganassini.

Il Kalevala, Mediterranee 2010

Ammetto che inizialmente ero rimasto un po’ perplesso, allorché avevo letto che l’annunciata traduzione sarebbe stata in prosa. Ma una volta avuto finalmente il libro tra le mani, e sfogliatolo, una graditissima sorpresa: la traduzione delle Mediterranee è in versi!

Certo, è passato un secolo dal tempo degli ottonari pavoliniani e Marcello Ganassini, più modestamente, ha svolto in poema in versi sciolti.

Ma ecco, personalmente la ritengo una scelta felicissima! Ganassini – già ottimo traduttore dal finlandese per Hyperborea – ha privilegiato la fedeltà del testo alla griglia metrica, offrendoci la prima versione integrale e filologica del testo lönnrottiano, il tutto senza rinunciare al senso poetico ed epico del poema.

Inoltre, cosa non meno importante, il testo è provveduto di un ottimo e puntuale corredo di note. Ganassini ha approfondito il testo a tutti i livelli e, per quanto per problemi di spazio non abbia potuto fornire una completa edizione critica (ma non è detta l’ultima parola…), ha corredato la traduzione di una serie di approfondimenti interessantissimi, che ci portano diritti nel cuore della mitologia ugro-finnica.

Se è una scommessa, è una scommessa vinta! A mia opinione, si tratta, insieme a quella del Pavolini, della miglior traduzione italiana del Kalevala, il Kalevala che non può assolutamente mancare nella libreria di ogni appassionato.