GANGLERI ha un nuovo indirizzo

Posted in Bifröst, Notizie on 8 gennaio 2011 by Bergelmir

COMUNICAZIONE IMPORTANTE

Avvisiamo tutti i lettori che il nostro blog Gangleri è definitivamente migrato al seguente indirizzo:

http://gangleri.bifrost.it/

dove rimarrà stabilmente.

Grazie a tutti per averci seguito fino ad ora.

A presto,

Redazione BIFRÖST

Gangleri raggiunge Bifröst

Posted in Bifröst, Notizie on 11 novembre 2010 by Bergelmir

Cari Amici,

vi avvisiamo che dopo quasi due anni di attività, il nostro blog GANGLERI è in fase di migrazione verso una nuova sede.

Presto raggiungerà infatti il portale Bifröst, che diverrà la dimora stabile di Gangleri. Rimarrà tutto come ora, grafica e impaginazione comprese, ed anche tutti i contenuti saranno integralmente importati presso il nuovo indirizzo.

Vi daremo notizia della avvenuta migrazione a tempo debito, nel frattempo continuate a seguirci!

A presto

Redazione Bifröst

L’enigma dell’albero Læraðr

Posted in Filologia on 20 ottobre 2010 by Holger Danske


Dell’albero Læraðr si accenna in Grímnismál [25-26], in due strofe, tra loro parallele, che chiudono la sezione  in cui si tratta delle cose e degli animali che si trovano nella Valhöll, qui definita «sala di Herjaföðr» [höll Herjaföðrs]:

Heiðrún heitir geit,
er stendr höllo á [Herjaföðrs]
ok bítr af Læraðs limom;
skapker fylla
hón skal ins skíra mjaðar,
knáat sú veig vanaz.

Heiðrún si chiama la capra
che si erge sulla sala [di Herjaföðr]
e bruca le fronde del Læraðr.
Il calderone riempirà
lei di quel chiaro idromele,
un liquore che non può mancare.

Eikþyrnir heitir hjörtr,
er stendr á höllo Herjaföðrs
ok bítr af Læraðs limom;
en af hans hornom
drýpr i Hvergelmi,
þaðan eigo vötn öll vega.

Eikþyrnir si chiama il cervo
che si erge sulla sala di Herjaföðr
e bruca le fronde del Læraðr.
Dalle sue corna
cadono gocce in Hvergelmir,
da cui prendono le acque ogni via.

Seppure non citando espressamente la strofa del Grímnismál, Snorri ne riprende i dati nella sua Edda in prosa (Gylfaginning [39]) e, pur variando lievemente l’ortografia del nome in Léraðr, non aggiunge nulla che già non sappiamo:

Annat kann ek þér þaðan segja. Geit sú er Heiðrún heitir stendr uppi á Valhöll ok bítr barr af limum trés þess er mjök er nafnfrægt, er Léraðr heitir, en ór spenum hennar rennr mjöðr sá er hon fyllir skapker hvern dag. Þat er svá mikit at allir einherjar verða fulldruknir af.

Posso raccontarti ancora una cosa. Quella capra che si chiama Heiðrún sta in alto sulla Valhöll e mangia le bacche dai rami di quel famosissimo albero chiamato Léraðr. Dalle sue mammelle l’idromele scorre copioso, tanto che ogni giorno ne riempie un calderone. Questo è così grande da ubriacare tutti gli Einherjar.  […]

Enn er meira mark at of hjörtinn Eirþyrni, er stendr á Valhöll ok bítr af limum þess trés, en af hornum hans verðr svá mikill dropi at niðr kemr í Hvergelmi.

Ancora più notevole è il cervo Eikþyrnir: anche lui si trova sulla Valhöll e bruca i rami dell’albero [Léraðr]. Dalle sue corna stillano tantissime gocce che cadono in Hvergelmir…”

La domanda che sorge spontanea è dove vada localizzato questo mitico albero? Sorge all’interno della Valhöll o accanto al mitico salone? E dove si trovano esattamente la capra Heiðrún e il cervo Eikþyrnir?

Il Grímnismál afferma che i due animali siano «sulla sala di Herjaföðr» [á höllo Herjaföðrs]. In norreno, il locativo può venire espresso dalle proposizioni á «su» e í «in». In particolare, la proposizione á (cfr. inglese on) denota il trovarsi in uno spazio superficiale (es. á golfi «sul pavimento», á sjá ok á landi «sul mare e sulla terra», á þingi «all’assemblea»), spazio che può essere anche un grande paese (á Íslandi «in Islanda», á Englandi «in Inghilterra») o un luogo assai meno definito (á himni «in cielo», á jörðu «sulla terra»).

Pur permanendo un certo grado di ambiguità, la maggior parte dei traduttori ha inteso le due strofe del Grímnismál nel senso che capra e cervo si trovino sopra il tetto della Valhöll, da dove arrivano a brucare le foglie del Læraðr. L’albero evidentemente non cresce all’interno del salone, ma all’esterno, e ne copre la sommità con le sue fronde. Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che Snorri, un po’ più esplicitamente, scrive che la capra Heiðrún si trovi «in alto sulla Valhöll» [uppi á Valhöll], rinforzando con uppi il significato di á. In quanto al cervo, scrive semplicemente á Valhöll.

Poiché il nome di questo mitico albero è attestato come Læraðr nell’Edda poetica, ma Léraðr nell’Edda in prosa, l’etimologia sarà diversa a seconda che si preferisca l’una o l’altra lezione. È probabile che la seconda forma sia derivata dalla prima, ma è incerto se si tratti di un’ortografia alternativa della medesima parola o se l’errata lettura di una vocale abbia portato a un’alterazione del significato.

Se prendiamo in considerazione l’ortografia veteroeddica Læraðr, il primo elemento del composto andrebbe connesso al sostantivo neutro , che vuol dire «inganno, tradimento, delitto», ma anche «arte, maestria», indicando un ampio campo di capacità e azioni artificiose, spesso disoneste (cfr. anglosassone læwa «traditore»; Ulfila rende con il gotico lewian il greco paradidónai «tradire»).

Se ci atteniamo all’ortografia snorriana Léraðr, si può invece pensare a una derivazione dal sostantivo neutro hlé «tetto, riparo, protezione» (cfr. Gimlé, con analoga mutazione ortografica hl > l). La radice proverrebbe in questo caso da un protogermanico *hlew- (cfr. tedesco Lee; olandese lij; antico sassone hlea; anglosassone hlēo > inglese lee «riparo dal vento», in ambito marinaresco; norreno hlé > danese «riparo»; Ulfila rende con il gotico hlija il greco skēnē «tenda»).

In quanto al secondo elemento del composto, –raðr, è probabilmente da connettersi al verbo raða «ordinare». Con vocale radicale lunga, il sostantivo neutro ráð significa «consiglio, piano, progetto» (cfr. tedesco Rat «consiglio»; danese, norvegese e svedese råd «consiglio»).

Se si accetta l’ortografia di Snorri, il dendronimo Léraðr potrebbe dunque significare «[albero che] stabilisce un riparo», oppure, traducendo con maggiore libertà, «[albero che] copre il tetto», giustificando l’ipotesi che l’albero stenda le sue fronde sopra la Valhöll.

Alternativamente, il nome del Læraðr potrebbe essere interpretato invece come «progetto di tradimento», per quanto non sia facile indovinare il senso di una simile lettura. Non sono mancati interpreti che, identificando il Læraðr con il frassino Yggdrasill, hanno voluto vedervi un accenno al mito dell’autosacrificio di Óðinn. L’impiccagione del dio è però volontaria e non si vede come possa essere considerata un «tradimento».

Ma, prima di avanzare altre ipotesi, cerchiamo di capire che specie d’albero sia il Læraðr. Come abbiamo detto, gli interpreti tendono a identificarlo con il frassino Yggdrasill. L’ipotesi è avvalorata dal fatto che il Læraðr è evidentemente proiettato in un panorama cosmologico: con i suoi rami ricopre il tetto della Valhöll, al sommo del cielo, e le gocce che cadono dalle corna del cervo finiscono nell’abissale sorgente di Hvergelmir. È evidente che solo il frassino Yggdrasill potrebbe stendersi dall’uno all’altro capo dell’universo. Altri studiosi, più umilmente, ritengono che il Læraðr sia solo la parte più alta del frassino.

È indubbio però che il Grímnismál distingua chiaramente i due alberi. Cita due volte il Læraðr in relazione alla Valhöll nelle strofe 25-26, e il frassino Yggdrasill è nominato per ben sei volte nel complesso di strofe 29-35, dove si tratta della fauna che dimora tra le radici e le fronde del grande albero.

Il Grímnismál non fornisce informazioni sull’aspetto dell’albero, ma si limita ad affermare che capra e cervo ne «brucano le fronde» [bítr af limom]. Snorri è un po’ più preciso, parlando di «foglie» [barr]. Ora, la parola barr indica più precisamente gli aghi del pino o dell’abete. Il Læraðr è dunque una conifera? Il guaio è che Snorri non è una fonte molto affidabile, in fatto di botanica: nato nelle brulle e spoglie terre d’Islanda, aveva poca confidenza con gli alberi. In un passo della sua Edda, definisce barr anche le foglie del frassino (Gylfaginning [16b]), che non è una conifera. Quest’uso improprio della parola barr implica che, per quanto ne sapeva Snorri, il Læraðr poteva benissimo essere un frassino.

Ma, seguendo la pista del «tradimento», si potrebbe anche pensare alla pianticella di vischio [mistilteinn] che, secondo Snorri, cresceva ad «ovest di Valhöll» [fyrir vestan Valhöll] e che servì per produrre l’arma con la quale Loki provocò la morte di Baldr. Si potrebbe avanzare l’ipotesi di una relazione tra il vischio e l’albero Læraðr, due piante che crescevano accanto alla Valhöll. Questa ipotesi, se corretta, potrebbe gettar luce sulla possibile lettura del dendronimo Læraðr quale «progetto di tradimento».

È un’interpretazione che pone però diversi problemi, non ultimo il fatto che il vischio [Viscum album] non è un albero, ma un arbusto parassita che cresce su altre piante. I testi norreni, però, dànno una strana descrizione della pianta destinata a uccidere Baldr. Secondo Völuspá [31], ad esempio, essa sarebbe cresciuta «alta sui campi», senza tenere conto che le bacche del vischio non germogliano sul terreno. Lo stesso Snorri la definisce un «virgulto d’albero» [viðarteinungr] (Gylfaginning [49]).

È evidente che gli autori islandesi immaginavano il vischio come un alberello. Certamente, vi è una bella differenza tra una pianticella giovane ed esile come il vischio di Völuspá [31] e l’imponente albero Læraðr, a meno che, nel mito originale, il vischio non alignasse appunto sul Læraðr.

Si tratta, in ogni caso, di ipotesi piuttosto fragili e difficili da sostenere, oltre che non verificabili. Ma forse val la pena rifletterci un po’, se non altro per il piacere di farlo. E voi cosa ne pensate?

Sima Qian. Uomini e storie dell’antica Cina

Posted in Libri on 30 settembre 2010 by Holger Danske

Questa piccola segnalazione letteraria contiene sia gioia che costernazione. Ebbene, poco tempo fa mi è giunta notizia, incredibile ma vero, che la Tored, piccola casa editrice di Tivoli (Rm), ha avuto il coraggio e l’ardire di pubblicare lo Shiji di Sima Qian, con il titolo Uomini e storie dell’antica Cina.

Ho subito chiesto informazioni per il libro. Un po’ di perplessità, apprendendo che non si trattava del testo integrale. Bene, in mancanza di meglio, mi sarei accontentato anche di un’antologia, purché ben fatta e significativa nella scelta del materiale. Curatori del libro erano segnalati la sinologa Ivy Sui-yen Sun e il classicista Thomas R. Martin; curatrice italiana, l’ellenista Monica Berti.

Mettermi in contatto con la meritevole casa editrice e ordinare il libro, nonostante il prezzo non certo basso (€ 34.00), è stato un attimo!

Capirete, lo Shiji, ovvero le “Memorie storiche” di Sima Qian (ca. 145-86 a.C.), è un testo fondamentale per la nostra conoscenza della mitologia e della storia cinese. Ma, seppure continuamente citato a ogni pié sospinto in tutti i libri sulla Cina che ho letto, sfogliato e studiato nel corso di tanti anni, non era mai stato tradotto in italiano prima d’ora.

Spiegare l’importanza di queste “Memorie Storiche” è quasi impossibile. Con una narrazione dettagliata e affascinante, lo Shiji copre tutta la storia della Cina dalle origini mitologiche alla dinastia Han, affrontando temi quali il rapporto tra potere centrale ed etica individuale, la natura della moralità politica, il legame tra il passato e il presente. L’opera è corredata di imponenti tavole cronologiche dove si confrontano, anno per anno, la storia dei vari regni cinesi. Vi sono poi lunghe digressioni su argomenti quali la religione, la mitologia, la riforma del calendario, i rituali, la musica, l’economia, la storia dei principali casati e, per finire, una vasta serie di biografie dei grandi personaggi del passato. Insomma, lo Shiji è l’opera che ha fondato la letteratura storiografica cinese. Vasta, impressionante, diluviale, è paragonabile per importanza alle Storie di Erodoto, e tre volte più lunga.

Pensate che il suo autore, l’astrologo imperiale Sima Qian (o Ssŭ-ma Ch’ien secondo il vecchio criterio di traslitterazione), giunto ormai a metà dell’annoso lavoro, fu accusato di avere sostenuto un generale caduto in disgrazia e venne condannato alla massima pena. Secondo la consuetudine del tempo, il condannato poteva scegliere tra il pagamento di un’ingente multa, la morte o la castrazione. Qualsiasi gentiluomo, in mancanza di denaro, avrebbe optato per una morte dignitosa e onorevole. Ma Sima Qian scelse di venire evirato, con tutte le gravissime conseguenze sociali e l’ignominia che tale mutilazione comportava, in quanto non poteva permettere che la sua opera – dedicata alla memoria del padre – rimanesse incompiuta. In un’accorata lettera, scritta all’amico Ren An, dichiarava:

Il motivo per cui ho sopportato questo supplizio in silenzio e non ho rifiutato di farmi coprire di lerciume è stato il non poter tollerare di lasciare incompiuta una cosa di personale importanza per me; non potevo accettare di morire se questo avesse significato che i passi fondamentali del mio scritto sarebbero andati perduti per i posteri.”

E dunque, come si può ignorare un libro simile?

Come potete immaginare, non appena il postino mi ha recapitato il pacco, ho subito stracciato l’involucro e, avuto il libro tra le mani, mi sono messo avidamente a sfogliarlo. Ma quant’era leggero! Centonovanta pagine? D’accordo, sapevo che non poteva trattarsi di un’edizione integrale, ma questa non era neppure un’edizione ridotta. Era… è…

Ebbene sì, Uomini e storie dell’antica Cina è una minima selezione del testo originale: undici stralci, tratti un po’ a caso dai capp. 6, 8, 9, 47, 61, 65, 85, 86, 110, 126 e 129. Tra l’altro mancano del tutto i primi cinque capitoli, quelli sulle origini mitologiche della Cina.

E poi che dirvi? Il volume è molto curato e ben stampato. Ha anche un buon profumo di carta e inchiostro, nota che sembrerà banale a chiunque non sia un feticista-del-libro. La traduzione è in ottimo italiano e c’è anche una splendida introduzione. Poi, viene riportata la famosa lettera di Sima Qian a Ren An, di cui ho prima citato un brano, che da sola vale il prezzo richiesto. Infine, per chi ama la storia e la letteratura cinese, il volume è un acquisto obbligato.

In mancanza di note esplicite, immagino che la traduzione italiana sia stata effettuata su una versione inglese di Ivy Sui-yuen Sun e Thomas R. Martin; nel caso sia così, mancano il titolo e l’editore originali dell’opera. Né è chiaro se la selezione dei testi sia una scelta dell’edizione inglese o di quella italiana. Insomma, un minimo di spiegazioni sulla provenienza del materiale e sui criteri editoriali mi avrebbe un po’ confortato!

Ma il difetto maggiore del libro è che, appunto, si tratta di una selezione. Fa venire voglia di leggere anche il restante 99% dell’opera, e spero proprio che un responsabile della BUR o della UTET capiti in questo blog e si renda conto che lo Shiji va assolutamente tradotto. Sappia, in tal caso, signor editore, che spenderei una cifra ragionevole per l’opera completa. Ma questo Uomini e storie dell’antica Cina non è affatto il libro di Sima Qian, ma solo un assaggino, un esempio, una demo. I suoi curatori hanno trattato lo Shiji come l’imperatore ha trattato Sima Qian… Zac! Ahia!

Detto questo, Uomini e storie dell’antica Cina è comunque una boccata d’aria fresca nel bel mezzo di un desolante vuoto editoriale. Per chi volesse ordinarlo, ecco la pagina nel sito delle edizioni Tored.

Terra Guerra Magia

Posted in Leggende, Libri on 12 settembre 2010 by Holger Danske

Terra Guerra Magia è, fin dal titolo, un libro incentrato sulla teoria del trifunzionalismo indoeuropeo. Giacomo Scalfari l’ha scritto utilizzando il materiale della propria tesi di laurea, discussa all’Università di Bologna nel 2002, e l’ha dedicato, con un guizzo ribaldo,

alla memoria di Éon della Stella,
paladino degli oppressi,
morto nelle prigioni del duca di Bretagna
nel 1148.

Pubblicato l’anno successivo (2003) dalla Keltia Editrice di Aosta, il libro segue le tracce dell’ideologia tripartita degli Indoeuropei nell’arco di quattromila anni, dal loro arrivo in Europa, nel III millennio a.C., alla fine del Medioevo.

Alla base vi sono le celeberrime ipotesi di Georges Dumézil, il quale, in una serie di studi magistrali, aveva ripartito le istanze religiose e sociali degli Indoeuropei in uno schema di tre funzioni fondamentali: sapienza e magia; guerra; fecondità e ricchezza.

Scalfari affronta il tema introducendo un’ulteriore difficoltà. Egli analizza il motivo della “Guerra di fondazione” – il mitico scontro tra gli dèi di prima e seconda funzione contro quelli appartenenti alla terza funzione, destinato a portare all’istituzione definitiva di un pantheon funzionalmente completo – e lo fa offrendo una suggestiva interpretazione. Egli vede in questo mito una traccia dell’antica invasione, da parte dei pastori indoeuropei, patriarcali e guerrieri, della Vecchia Europa matriarcale e pacifica ipotizzata da Marija Gimbutas, in seguito assorbita e integrata del nuovo sistema. È una possibilità da cui lo stesso Dumézil prendeva le distanze: secondo l’illustre studioso, il sistema delle tre funzioni faceva parte ab origine del pensiero indoeuropeo e il mito della Guerra di Fondazione intendeva piuttosto dare una giustificazione mitologica della loro unità. Scalfari non nega questo assunto, ma sostiene che il mito della Guerra di Fondazione sia stato via via riattualizzato man mano che gli indoeuropei assorbivano i popoli autoctoni della Vecchia Europa. Tal modo fornisce un’immagine assai interessante di un evento protostorico che, pure, è alla base della nostra cultura.

Non è questa la sede per prendere posizione sulla questione. Un lavoro intelligente e articolato come quello di Scalfari è sempre il benvenuto e fornisce molto materiale di riflessione. Nell’analizzare il mito della Guerra di Fondazione, egli si concentra soprattutto sugli esiti dei personaggi di terza funzione. Sono piacenti e belli, eppure malevoli, pronti a impossessarsi della regalità, ma funzionalmente incapaci di gestirla. Ma Scalfari, rifacendosi agli studi Joël Grisward, insegue i fili del trifunzionalismo ben oltre le antiche mitologie, ma fin dentro la società tripartita del Medioevo feudale (distinta in oratores, pugnatores e agricultores), ritrovando l’ideologia indoeuropea sia nel ciclo carolingio dei Narbonesi, sia, ancor più, nel ciclo bretone.

Se tutto il libro è condotto con intelligenza e spessore, quest’ultima parte è stata, per chi scrive, un’entusiasmante scoperta. Scalfari analizza nei dettagli alcuni elementi della leggenda di Artù. Egli rintraccia, nella coppia di personaggi a cui il re morente ordina di gettare la spada in acqua, un esito della coppia di terza funzione dei miti indoeuropei. Inseguiti sul filo dei testi, Cei e Bedwyr (Kay e Bedivere) ne emergono con sfaccettature inedite e le analisi di Scalfari dànno un significato a molti episodi che li hanno per protagonisti. Perché Cei mente a suo padre, affermando di aver estratto lui la spada dalla roccia? Perché Bedwyr si dimostra talmente avido da rifiutare di gettare la spada nell’acqua? I motivi sono assai più antichi e profondi. Così come nel racconto del graal di Chrétien de Troyes, dove Perceval è destinato a prendere il posto del Re Magagnato, è compreso un eco dell’episodio di Lúg che giunge alle porte di Temáir, per sostituirsi a re Núada, anch’egli presentato come ferito e incapace di garantire una corretta regalità. Leggendo, si notano molti punti in cui lo spazio disponibile non ha dato modo a Scalfari di seguire tutte le possibili tracce fino in fondo e, nonostante su Artù sia stato detto tutto e il contrario di tutto, l’autore riesce a dare l’impressione di un mondo inesplorato, pieno di delizie e meraviglie.  È esattamente come vorrei che finalmente ci si occupasse delle storie di Artù. In una cinquantina di pagine, Scalfari riesce a dire sul ciclo arturiano molto di più di tanti libri più vasti e blasonati ma, in fin dei conti, superficiali e privi di spessore.

È un lavoro appena iniziato, e auguro a Giacomo Scalfari di continuare i suoi studi.

Un articolo dello stesso Scalfari, tratto dalla prima parte del suo libro, è stato pubblicato su Bifröst, alla pagina Quando gli dèi si facevano la guerra. L’autore ha anche un blog, La scarpa di Víðarr. Per ordinare il libro, si può far riferimento alla pagina sul sito della casa editrice Keltia.

Giacobbismi e mitologia cinese

Posted in Libri on 27 agosto 2010 by Holger Danske

Mi è capitato di sfogliare il libro Templari, dov’è il tesoro?, ultima fatica (si fa per dire) letteraria (si fa sempre per dire) di Roberto Giacobbo, il famigerato conduttore televisivo di Voyager

A un certo punto, Giacobbo cerca di dimostrare che la rotta per l’America era ben nota nell’Alto Medioevo e che, secoli prima di Cristoforo Colombo, vi era già un discreto viavai di vichinghi,  templari e pescatori baschi dall’una all’altra sponda dell’Atlantico. L’ipotesi è niente male, e meriterebbe degli approfondimenti sensati, ma Giacobbo si limita a citare degli esempi, pescati un po’ qui e un po’ là, che lasciano il tempo che trovano.

Ma non è dell’America che voglio parlare, bensì della Cina. Che c’entra la Cina? Niente. Ma questo non vieta a Giacobbo di citarla, a casaccio, per rafforzare la sua tesi. Infatti, scorrendo con incredulo interesse i funambulismi logici affastellati da Giacobbo, sono inciampato sulla seguente affermazione (pagg. 173-174):

I testi cinesi raccontano le imprese di Shan Hai Ching T’Sang-Chu e Shan Hai Jing, i quali, mandati in missione dall’imperatore Huang Ti, avrebbero raggiunto le coste americane passando lo stretto di Bering già nel 2640 a.C.

Tale notizia è anche presente nel sito di Voyager, dove potrete leggerla in tutto il suo splendore, in un articolo dove si ipotizza la presenza di Dante in Islanda. L’assoluta improbabilità del contesto non ha impedito a parecchi altri siti e blog di riportare a loro volta l’informazione in oggetto, dimostrando una volta di più come tanta gente sia disposta a fidarsi a occhi chiusi di affermazioni campate in aria.

Già una frase che inizia con “I testi cinesi raccontano…” dovrebbe far rizzare le orecchie a chiunque abbia un minimo di senso critico. Di quali testi cinesi stiamo parlando? Tutti sono capaci di scrivere stupidaggini e ricondurle a imprecisate fonti cinesi, sanscrite o babilonesi, senza però dire quali. Si vuol dare l’idea che la letteratura antica, o di paesi lontani, sia cosa enigmatica e misteriosa, riservata agli studiosi e inavvicinabile ai comuni mortali, e che questi ultimi debbano accettare con timore reverenziale affermazioni tratte dai “testi cinesi”, senza alcun diritto a un serio riscontro.

Ma ritorniamo all’affermazione presente nel libro di Giacobbo.

Tale affermazione, che il lettore poco addentro ai meandri della mitologia orientale non può che accettare sulla fiducia, nasconde una stratosferica, mastodontica, abissale ignoranza della materia. Chi l’ha scritta non aveva la minima idea di cosa stesse scrivendo. È una frase che meriterebbe gli onori del Guinness dei Primati solo per l’incredibile densità di strafalcioni che riesce a contenere nello spazio di quattro righe.

Ma procediamo con ordine.

Abbiamo alla base un’ipotesi avanzata da Henriette Mertz nel 1972 (Pale Ink: Two Ancient Records of Chinese Exploration in America). L’autrice cercava di dimostrare, a partire da alcuni accenni contenuti in un testo cinese di duemila anni fa, il Libro dei monti e dei mari, che i Cinesi fossero arrivati in America.

Per la cronaca, una bella traduzione italiana del Libro dei monti e dei mari è stata pubblicata da Marsilio, a cura di Riccardo Fracasso (Venezia 1996). Chiunque può quindi andare a consultare il testo e farsi un’idea del suo effettivo contenuto. Il Libro dei monti e dei mari  è essenzialmente un elenco di monti, fiumi, mari e isole, sia della Cina che delle terre confinanti. L’elemento fantastico predomina incontrastato: quasi ogni toponimo è abitato da draghi, mostri, animali e popoli straordinari. Vi sono descritti uomini dal becco d’uccello, dal corpo di serpente, con le ali o l’andatura quadrupede, o con un foro nel petto nel quale fanno passare un bastone per farsi sollevare e trasportare.

Il lettore può giudicare da sé quanto un libro simile sia affidabile al fine di dimostrare che i Cinesi conoscessero l’America.

Ora, non credo che Giacobbo sia andato a fare ricerche troppo approfondite. Non ha certamente consultato il Libro dei monti e dei mari, né probabilmente ha mai sentito parlare degli studi della Mertz. Le sue fonti sono riportate in bibliografia, e non c’è tanto da stare allegri visto il livello medio dei libri citati. Proprio non me lo vedo Giacobbo che va a fare ricerche in biblioteca. Immagino che egli abbia tratto le sue informazioni da internet.

Comunque sia, ho voluto fare una piccola ricerca. Ho dato un’occhiata su Google e ho subito trovato, in questa pagina, incentrata sui vichinghi, la seguente affermazione:

The ancient Chinese geographical text, Shan Hai Ching T’sang-chu, and the classic chronicle Shan Hai Jing, suggest that the West coast of North America was “discovered” by Chinese Imperial astronomers.

Capito? Avete letto bene? Shan Hai Ching e Shan Hai Jing sono qui i titoli di due opere letterarie, non i nomi dei due messaggeri che, secondo Giacobbo, l’imperatore avrebbe inviato in America. Qualcuno, nel tradurre dall’inglese, deve aver compiuto un errore di traduzione davvero barbino. Non voglio credere sia stato Giacobbo. Magari, il nostro valente scopritore di misteri ha ricopiato una pessima traduzione italiana e, senza avvedersene, ha infilato dentro una virgola, trasformando due libri in due uomini!

Ma anche se non fosse stato Giacobbo l’autore di una così fuorviante traduzione, è pur vero che, riportandola pari pari in un libro sponsorizzato dalla Rai e destinato a un’ampia quanto immeritata diffusione, ne è ugualmente responsabile.

Inoltre, nel citare le due opere cinesi, la fonte di partenza conteneva un altro errore, pacchianissimo, che il baldo Giacobbo ha allegramente contribuito a tramandare ai posteri. Volete sapere quale? Riportiamo ancora una volta i titoli delle due opere, come scritti nel libro:

Shan Hai Ching T’Sang-Chu
Shan Hai Jing

Ora, lo Shan Hai Ching e lo Shan Hai Jing non sono due opere, ma una sola, e cioè il Libro dei monti e dei mari (山海经), traslitterato prima secondo il vecchio criterio Wade, poi nel sistema ufficiale Pinyin. È curioso che nessuno, tantomeno Giacobbo, sia sia reso conto di aver riportato due volte uno stesso titolo, solo perché scritto in due modi lievemente diversi.

(Per inciso, “T’Sang-Chu” non so cosa significhi. Forse nulla, visto che sembra più vulcaniano che cinese. Ma forse l’autore voleva scrivere ts’ang-chu, con lo spirito aspro dopo il ts…)

Che Giacobbo citi – come “prova” che i Templari fossero andati in America – un bestiario cinese che non ha mai letto, citato da fonti poco attendibili, e il cui titolo, traslitterato secondo due criteri diversi, scambia per i nomi dei due inviati dell’imperatore, è un ottimo esempio della validità e della serietà del suo studio…

Ma veniamo all’ “imperatore” citato da Giacobbo. Huang Ti, o in pinyin, Huang Di, il “Dominatore Giallo”. È un mitico sovrano predinastico che, stando alle Memorie storiche di Si Ma Qian, avrebbe regnato dal 2697 al 2512 a.C., cioè prima dell’uccisione di nove dei dieci Soli da parte del divino arciere Yi, e prima della grande inondazione causata dal mostruoso Gong Gong. Nel corso del suo regno, Huang Di combatté una guerra contro Chi You, un temibile avversario con quattro occhi e la testa di toro, e lo mise in fuga suonando un magico tamburo fabbricato con la pelle di una creatura unipede che viveva nel mare orientale. Alla fine della sua vita, fu reso immortale e salì al cielo sul dorso di un drago.

Queste note tanto per evidenziare che, come personaggio storico, Huang Di è allo stesso livello di Gilgameš, Eracle o Romolo. Citarlo quale “prova” di qualsiasi ipotesi storica è semplicemente ridicolo.

Già poi definire Huang Di “imperatore” è un altro errore imperdonabile. Com’è noto, le leggende cinesi delle origini prendono l’avvio da una serie di otto sovrani preistorici, i tre huang (“augusti”) e i cinque di (“dominatori”), tra cui appunto il nostro Huang Di. Su di essi si accentrano molte leggende culturali: costoro avrebbero creato l’umanità e fondato tutti i rudimenti del vivere civile. Ma in quanto a consistenza storica, non ne hanno più di quella dei patriarchi antidiluviani della Bibbia.

A questi otto sovrani predinastici, secondo le leggende cinesi, seguì la prima dinastia Xia, la quale non ha alcun riscontro storico. La dinastia Shang, che seguì ad essa, è quella a cui tradizionalmente si fanno risalire le incisioni sulle ossa oracolari, trovate dagli archeologi nella vallata del Fiume Giallo, che sono le prime timide testimonianze della civiltà cinese. Solo con la terza dinastia Zhou, entriamo vagamente in qualcosa definibile come storia…

Tutto questo per farvi capire che razza di valore storico si possa dare a un personaggio come Huang Di, il “Dominatore Giallo”, ancora più antico delle più remote testimonianze archeologiche della civiltà cinese.

Ora, i sovrani delle prime dinastie (Xia, Shang, Zhou…) venivano definiti wang (“re”). Il primo a fregiarsi con il titolo di imperatore, come tutti sanno, fu Qin Shi Huang Di, l’unificatore della Cina, il folle creatore dell’esercito di terracotta, vissuto nel III sec. a.C. Egli mise insieme i titoli preistorici di huang e di di e ottenne un titolo nuovo di zecca, huang di, “augusto dominatore”, cioè quello che noi traduciamo con “imperatore”.

Forse Giacobbo aveva confuso il mitico e saggio Huang Di con l’arrogante e storicamente concreto Qin Shi Huang Di? Potrebbe anche darsi, per quanto dovrebbe essere evidente persino a lui che duemilatrecento anni di scarto temporale tra l’uno e l’altro non sono propriamente una bazzecola. A scanso di equivoci, aggiungiamo che il huang nel nome del sovrano predinastico Huang Di non vuol dire “augusto” ma “giallo”; in cinese viene infatti scritto con un diverso ideogramma.

Secondo una delle tante leggende che lo riguardano, Huang Di si era occupato di ancorare le isole degli immortali che, secondo il mito cinese, andavano alla deriva nel mare orientale. Queste si chiamavano Dai Yu, Yuan Jiao, Fang Hu, Ying Zhou e Peng Lai. In queste isole paradisiache, schiere di immortali [xian] vivevano in palazzi d’oro con colonne di giada, e avevano a disposizione elisir che impedivano la morte. Laggiù tutti gli uccelli e i quadrupedi erano bianchi, e gli alberi generavano frutti simili a perle deliziose, che conferivano l’immortalità a chiunque le assaggiasse. Per ancorarle, Shang Di ordinò a un genio di nome Yu Jiang di cercare quindici tartarughe giganti in modo che a turno sostenessero sulle loro teste le cinque isole. Così venne fatto, e tutti furono soddisfatti.

Altro non è che il mitema delle isole dei beati, collocate al di fuori del mondo e della storia, dove il tempo è rimasto sospeso all’epoca della perfezione primordiale e dove non esistono malattia, vecchiaia e morte. Le isole cinesi sono affini alle isole delle Esperidi del mito greco o ai síde delle leggende irlandesi e, anzi, appartengono alla medesima sfera mitologica.

Inutile aggiungere che posti come questi non hanno alcuna attendibilità geografica… per quanto pare che Qin Shih Huang Di avesse effettivamente inviato delle navi a cercare le cinque isole degli immortali, nel tentativo di sconfiggere la morte.

Possiamo forse scusare il megalomane imperatore, che visse più di duemila anni fa, in un mondo in cui i taoisti non facevano che cercare tecniche in grado di rendere gli uomini immortali. Ma il voler identificare le terre favolose di cui parla il Libro dei monti e dei mari con il continente americano, come ha fatto la Mertz, è solo la proiezione di una mente geograficamente moderna su una figurazione assolutamente mitologica.

In quanto a Roberto Giacobbo, semplicemente non credo avesse la più pallida idea di cosa stesse trattando, quando scriveva le righe di cui sopra.

Ma che importa? È evidente che Templari sia un testo del tutto avulso da qualsiasi intenzione di verità. Mette insieme ciò che fa comodo alla tesi di Giacobbo, senza alcun tentativo di analisi critica delle fonti, senza alcun criterio nell’esposizione delle prove e senza alcuna logica nella sequenza dei ragionamenti. È una stronzata in senso frankfurtiano. Certo, sarà il tempo a condannare simili libri alla meritata damnatio memoriae, ma intanto c’è gente priva di scrupoli che li scrive e gente disarmata che li compra e magari li prende pure per oro colato.

Auspicare un minimo di onestà intellettuale, è forse troppo?

PS. Un’ultima nota. Il primo ministro di Huang Di si chiamava Cang Jie. A lui veniva fatta risalire l’invenzione della scrittura pittografica. Il suo nome, nella traslitterazione Wade, dà Ts’ang-Chieh. Potrebbe essere lui, in effetti, lo “T’Sang-Chu” [sic] che il testo di Giacobbo fonde al titolo Shan Hai Ching. Ma questa è una mia ipotesi. Non ho idea di cosa intendessero al riguardo Giacobbo o le sue fonti. Se qualcuno ha qualche idea, a puro titolo di morbosità, si faccia pure avanti.

Piccolo excursus miðgarðiano

Posted in Filologia on 3 agosto 2010 by Holger Danske

Con il Miðgarðr, o “recinto mediano”, regione cosmica abitata dal genere umano, affondiamo nella comune cosmologia germanica. Il termine mantiene però i suoi addentellati mitologici solo nella letteratura in lingua norrena; nelle fonti cristiane – gotiche, tedesche, sassoni e anglosassoni – è utilizzato semplicemente come sinonimo poetico della terra abitata dagli uomini.

Nella quarta strofa della Völuspá si accenna rapidamente della creazione del Miðgarðr, nel corso dell’imponente opera cosmogonica messa in atto dai tre figli di Borr. Il brano è il seguente:

Áðr Bors synir
 bjöðum of ypðu,
 þeir es Miðgarð
 mæran skópu…

Finché i figli di Borr
 innalzarono le terre,
 loro che Miðgarðr
 vasto fondarono…

Il brano è piuttosto ambiguo ed è difficile dire se anche il Miðgarðr sia da considerare una delle «terre» [bjöðum] innalzate dai figli di Borr

La parola norrena bjöðr (o bjóðr) significa innanzitutto «tavola, mensa», ma anche, al plurale, «suolo, terraferma, distesa». È una parola abbastanza affine, semanticamente, allo spagnolo mesa o al francese plateau. Marcello Meli (Völuspá, 2008) suggerisce che tali «terre» vennero tratte fuori dalle acque, con possibile riferimento al dettato biblico, dove le acque si ritirano al comando di Dio per lasciar emergere la terraferma. L’interpretazione appare però improbabile, perché il motivo dell’emersione della terra dalle acque sembra estraneo al mondo germanico. La formazione del Miðgarðr sembra avvenire dopo l’emersione delle «terre», quasi una creazione operata separatamente dai figli di Borr.

Ma in che modo si può intendere la creazione del Miðgarðr ? Il verbo skapa significa in effetti «plasmare, dare forma», ma anche «assegnare un destino», e ancora, nella forma derivativa skepja, «fissare» (Ulfila rende con il gotico skapjan il greco ktízō «fondare, istituire»). Quest’ultimo significato è piuttosto interessante, e merita di essere esplorato.

I dettagli dell’opera di creazione compiuta dai figli di Borr sono definiti in Grímnismál  [40-41], dove si dice che l’universo viene plasmato a partire dal corpo sacrificato del gigante primordiale Ymir: la terra è tratta dalla sua carne, il mare dal suo sangue, le montagne dalle ossa, gli alberi dai capelli, il cielo dal cranio, e così via. È appunto nel contesto di una tale cruenta opera di creazione, che la natura del Miðgarðr viene definita in senso etimologico e cosmologico insieme:

En ór hans brám
 gerðo blið regin
 miðgarð manna sonom…

Dalle sue sopracciglia
 fecero gli dèi benedetti
 Miðgarðr per i figli degli uomini…

La spiegazione viene fornita da Snorri: «All’interno [della terra], [i figli di Borr] innalzarono una fortificazione [borg], a causa dell’ostilità dei giganti e, per farla, utilizzarono le sopracciglia del gigante Ymir».

Il Miðgarðr  non viene dunque creato o plasmato, ma semplicemente  disegnato o, se vogliamo, istituito. Il verbo è qui un generico göra/gera, «fare, costruire». D’altronde ben adoperato, visto che i figli di Borr non hanno fatto altro che innalzare fisicamente una recinzione. La «creazione» del Miðgarðr si configura dunque come la delimitazione di uno spazio. È un’opera non di creazione, ma di fondazione.

La parola Miðgarðr, come detto, significa letteralmente «recinto mediano», nel senso di «spazio all’interno di un recinto». Non vi è dunque soltanto una nozione di centralità, ovvia conseguenza dell’esperienza umana che tende a porsi al centro del proprio sistema di coordinate psicologiche, ma anche una nozione di luogo raccolto a difesa. Infatti, mentre quasi tutti i nomi dei nove mondi sono caratterizzati dalla parola -heimr «casa, patria, mondo», Miðgarðr è un composto in -garðr. Questo termine viene tradotto con «recinto» (cfr. tedesco Garten «giardino», inglese yard «cortile» e garden «giardino», danese e svedese gård «cortile, fattoria»), anche se vi è contenuta la connotazione di una fortificazione atta a proteggere un villaggio o un centro urbano, e quindi è altrettanto traducibile con «fortezza» (cfr. paleoslavo gorodŭ «fortezza», da cui russo grad «città» e cèco hrad «castello»; lituano gardas, žardas «recinto, fortificazione»).

La «creazione» del Miðgarðr non lo è quindi in senso cosmogonico, ma più in senso legale o giuridico. Non è diversa dall’operazione di tracciare un solco o un confine, o di erigere una palizzata intorno a una città. I figli di Borr, dunque, non creano il Miðgarðr, ma lo istituiscono. Ciò spiega la nostra proposta di traduzione del verbo skápa in Völuspa [4]:

…loro che Miðgarðr
 vasto fondarono…

Tale helmingr può anche essere letto superando la necessità di tradurre il termine Miðgarðr come nome proprio: «loro che un vasto spazio mediano recintarono».

E non appena l’umanità venne creata, aggiunge Snorri, «le fu data dimora entro il Miðgarðr» [þeim er bygðin var gefin undir Miðgarði]. Il Miðgarðr è lo spazio compreso dentro questo imponente bastione cosmico.  È il nostro mondo.

Schedario: [Miðgarðr]

Quando gli dèi si facevano la guerra

Posted in Bifröst on 27 luglio 2010 by Holger Danske

Su Bifröst è stato pubblicato, a rinfrescare questa lunga estate calda, un interessantissimo articolo di Giacomo Scalfari: Quando gli dèi si facevano la guerra. L’autore approfondisce, sulla scolta degli imprescindibili studi di Georges Dumézil, il motivo delle guerre divine, in particolare il conflitto «orizzontale» tra gli dèi di prima e seconda funzione e le divinità di terza funzione, destinato a terminare – com’è ben noto – con l’assorbimento di questi ultimi e la costituzione di un pantheon funzionalmente completo. Scalfari analizza i miti celtici, norreni e romani, evidenziando i rapporti tra i vari elementi e personaggi di queste antiche teomachie, e riconduce il motivo della cosiddetta «guerra di fondazione» al passaggio dalla cultura neolitica antico-europea (vista come società matriarcale, pacifica, ed egualitaria), alla civiltà importata dagli invasori indoeuropei (patriarcale, bellicosa e fortemente gerarchica), determinando così la storia millenaria del nostro continente.

"Muzio Scevola dinanzi a Porsenna" - Dipinto di Matthias Stomer (ca. 1650)

Il mistero dell’epigrafe di Santeramo – II

Posted in Filologia, Notizie on 17 luglio 2010 by Bergelmir

Proseguiamo l’esposizione del nostro piccolo mistero pugliese iniziata il mese scorso, riguardante l’epigrafe ritrovata nell’estate 2009 a Santeramo in Colle (BA). In questa seconda parte esporremo quelle che sono state le nostre ricerche e le nostre deduzioni, oltre a dare una lettura di quanto ci è stato possibile decifrare. Premettiamo fin da ora che, ove non diversamente indicato, quanto riportato sotto rappresenta unicamente la nostra opinione di semplici appassionati di antichità e di lingue, senza nessuna pretesa di completezza né di autorevolezza. Ricordiamo ancora una volta che accettiamo più che volentieri qualunque critica o suggerimento, ed anzi invitiamo tutti gli appassionati di antichità che leggono a proporre il loro punto di vista per aiutarci a fare quanta più chiarezza possibile in merito all’enigma. Precisato lo spirito con cui è stato scritto questo breve resoconto, procediamo con questa breve indagine.

IL CONTESTO URBANISTICO

Secondo quanto ci ha descritto il dott.Vito Zullo riguardo al contesto urbanistico, l’abitazione in cui è stata rinvenuta l’epigrafe nel raggio di 30 metri circa si trova nelle vicinanze di:

1) una chiesa bizantina;
2) una chiesa romanica;
3) una torre longobarda;
4) una Domus di Federico II di Svevia
5) catacombe con migliaia di ossa umane (almeno così dicono le leggende metropolitane) che nessuno ha ancora esplorate, poiché sono chiuse e al momento inaccessibili. “A mio avviso” – ci spiega il dott. Zullo – “dovevano trattarsi di sepolture avvenute per un massacro agli adepti del culto di Bacco, dato che il nostro luogo ne era il maggior centro”.
Questi dati possono essere utili, forse, per meglio contestualizzare la nostra ricerca, ma entriamo ora nel vivo dell’indagine.

LETTURA DELLE IMMAGINI

Abbiamo provato a migliorare la leggibilità dell’immagine dell’epigrafe inviataci dal Dott. Zullo mediante strumenti fotografici, sia a colori che in bianco e nero:

Epigrafe elaborata

Foto 1 - Immagine elaborata a colori dell'epigrafe di Santeramo

Foto 2 - Immagine dell'epigrafe elaborata in bianco e nero

A una prima analisi non sembra che le informazioni leggibili aumentino di molto anche dopo l’elaborazione, tuttavia l’incisione appare più nitida e meglio leggibile. Si può notare innanzitutto come l’alfabeto utilizzato sia chiaramente onciale, semi-onciale o per lo meno ispirato a questo tipo di scrittura. Lo si nota specialmente dalle lettere “a”, “d”, “l” e “r”, che sono le più immediatamente riconoscibili. L’0nciale è un alfabeto usato per la scrittura maiuscola, in uso dal III all’ VIII secolo nei manoscritti, mentre nei secoli successivi, fino al XIII, fu limitato alle intestazioni e ai titoli.

INTERPRETAZIONE DEL TESTO

Venendo finalmente alla lettura vera e propria della nostra epigrafe, separiamo inanzitutto il testo nelle tre righe di cui è composto, anche perché possiedono leggibilità differenti.

1 – La PRIMA RIGA è forse quella che pone maggiori difficoltà, ma proviamo comunque a segnare ciò che è possibile vedere:

Foto 3 - Prima riga dell'epigrafe di Santeramo

?b Λ c?   VIR(i).  d(i).A.b.

Il secondo carattere può essere una “A” maiuscola o anche una sorta di lambda greca (Λ). Sembra comunque che ci troviamo di fronte a una serie di abbreviazioni, se non addirittura ad un messaggio cifrato. Purtroppo non ci è possibile al momento dare un’interpretazione di queste scritture e ci limitiamo a riportare quanto riteniamo sia possibile leggere. Una futura pista di approfondimento potrebbe essere la ricerca nello stesso territorio di altre epigrafi di età comparabile con la nostra, per vedere se anche queste riportino abbreviazioni simili e, da qui, vedere se sia possibile capirne il significato.

2 – La SECONDA RIGA, quella centrale, è invece decifrabile senza troppe difficoltà e riporta una data ben precisa:

Foto 4 - Seconda riga dell'epigrafe di Santeramo

A°D MCCCCLXXXVI DIE XV IANUA…

che si può leggere A[nno] D[omini] 1486 die 15 Ianua[rii]

Ovvero 15 gennaio 1486.

Dai pochi dettagli fin qui osservati, possiamo ipotizzare che la lingua utilizzata sia verosimilmente latino, ma gli elementi per stabilirlo sono così pochi che potrebbe trattarsi anche di volgare, o addirittura di un’iscrizione mista.

3 – La TERZA RIGA infine, al pari della prima è piuttosto problematica e di ardua lettura. Contiene anch’essa diverse abbreviazioni e ci sono pochi elementi per ricostruirla. Quello che al momento si riesce a leggere è:

Foto 5 - Terza riga dell'epigrafe di Santeramo

? d°M?NIC?dAV?N?T ?n° fi?dEL(T)?

La prima parola individuabile, che va dal carattere “d” a quello seguente la prima “c”, potrebbe riferirsi ad un nome (Dominicus?, Domine?), ad un giorno della settimana (Dominica?), ad un luogo, o potrebbe anche essere un riferimento religioso. L’ultima parola potrebbe essere quindi dedit , ovvero “diede, donò”, ma potrebbe anche leggersi fidel.., però purtroppo non si riesce a leggere oltre.

Questo è quanto siamo riusciti a leggere nelle tre righe che compongono l’epigrafe di Santeramo. L’unica certezza pare essere l’origine medievale dell’incisione, testimoniata dall’alfabeto onciale impiegato e dalla data riportata, ma siamo ancora piuttosto lontani dalla comprensione del testo. Possiamo aggiungere che solitamente questo tipo di epigrafi poteva contenere iscrizioni commemorative che ricordassero la costruzione di un edificio, un particolare evento accaduto al suo interno o il sogggiorno nello stesso di un personaggio di rilievo. Molto frequenti erano anche i ricordi di doni, specie se di grande entità. Non sappiamo se ci troviamo in uno di questi casi, poiché gli elementi emersi dalla lettura delle immagini non ci consentono di dire molto altro.

Vi ricordiamo che fino ad oggi, quindi dopo circa un anno dal ritrovamento, nessuno è stato in grado di dare una soluzione accettabile in merito all’iscrizione, per cui insieme al Dott. Vito Zullo abbiamo ritenuto utile pubblicare il resoconto delle nostre indagini e delle conclusioni cui ci è stato possibile giungere.

Nella prossima puntata vedremo ulteriori analisi proposte da altri studiosi e cercheremo di trarre qualche ulteriore conclusione.

Invitiamo fin da ora tutti gli appassionati e gli studiosi a inviarci le loro riflessioni e i loro commenti in merito all’epigrafe.

CONTINUA

“Agenzia Senzatempo”: doppia presentazione

Posted in Notizie on 9 luglio 2010 by Holger Danske

Dario Giansanti e Claudia Maschio presenteranno il loro ciclo fantasy-mitologico Agenzia Senzatempo, in due incontri: a Pescara, presso gli spazi espositivi della libreria Edison, il 14 luglio, e a Viterbo, nel corso della manifestazione culturale Caffeina, il 16 luglio.

Ricordiamo che la simpatica serie è attualmente formata da due romanzi: Viaggio irreale nell’Irlanda celtica e Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù. Essi possono essere ordinati in libreria e online, oltre che in offerta speciale presso il sito Bifröst, alla pagina Agenzia Senzatempo. Un terzo volume, Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga, è attualmente in fase di stampa presso la casa editrice Qui Edit.

Di seguito, le locandine delle due manifestazioni, realizzate da Sara Coppoli e Federica Di Tizio. 

PESCARA
Mercoledì 14 luglio 2010 – Ore 18.30
Libreria Edison, presso Area Stand Edison Booksquare
Coordina: Flavia Di Luzio

VITERBO
Venerdì 16 luglio 2010 – Ore 19.00
Palazzo degli Alessandri (quartiere medievale)
Coordina: Pippo Rescifina